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Per mantenere viva la memoria

delle persone di un tempo,

perché i nostri figli

conoscano e riscoprano

i loro padri e i loro nonni,

per tramandarne il valore

nel ricordo dei loro volti

delle loro parole e dei loro nomi,

per riscoprire le loro gioie

i loro dolori e le loro miserie,

per riappropriarsi di tutto quello

che era stato dimenticato,

per rievocare momenti

della nostra piccola grande storia,

per far sentire vivo e importante

il tuo e il nostro passato,

perché i nostri cari siano sempre con noi,

 per vedere e ricordare

la gioia la tristezza e la commozione

nel tuo volto,

ma soprattutto per sentirmi appagato

dai tuoi racconti

dai tuoi ricordi

dalla tua voglia di rivivere

 

ti ho ascoltato.

 

Conoscevo già il padre di Gilberto, “il postino di Cetica”, ma i miei rapporti erano più stretti col fratello Giannetto che, in attesa di riprendere il suo posto alla Cassa di Risparmio di Firenze, svolgeva le funzioni di applicato di stato civile ed anagrafe in Comune, e col cognato Alfredo Ronconi mio collega nella Giunta comunale, di cui apprezzavo le doti di serietà, di saggezza e di equilibrio. Il rapporto amichevole con Gilberto fu quindi immediato. Era naturale che egli trovasse il suo posto nella grande famiglia popolare della sinistra socialista e comunista che sosteneva il Sindaco e la Giunta impegnati in un lavoro quotidiano veramente improbo, per affrontare la ricostruzione e aiutare una popolazione in gran parte disastrata e alle prese con le necessità di sopravvivenza.

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Mi pare ancora di vederlo come fosse oggi: piccolo di statura con un viso regolare e intelligente dove spiccavano gli occhi vivaci e furbissimi: era profondamente buono, ma vedeva sempre il lato comico delle cose e dei comportamenti altrui, e da vero “stradino” si divertiva a prendere in giro e a combinare scherzi amichevoli anche se pungenti. Attaccatissimo alla famiglia, aiutava il padre come postino (gli succederà poi ufficialmente) e nella bottega: rimasto scapolo riversava il suo affetto sui nipoti. E’ giusto che sia oggi Gianni Ronconi il figlio di Alfredo e di Aurora Giannotti a raccogliere questo tesoro di ricordi e a tener viva la memoria dello zio.

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ma da questo libro “mi ricordo che” vive ancora lui, quale era coi suoi pregi e i suoi difetti, e rivive in una straordinaria serie di storie e di personaggi un mondo passato che appare lontanissimo, eppure ci è ancora vicino.

On. Mauro Ferri

Renzo Tian

   Il grande regno della memoria, patrimonio collettivo dell’umanità, è qui esplorato coi mezzi più semplici e fedeli. Non il “memoriale”, dove i ricordi e gli eventi vengono ad atteggiarsi e a comporsi in un disegno prestabilito e finalizzato a qualche scopo; non il rammemorare nostalgico di chi sospira pensando al buon tempo andato; non la pura autobiografia, che pone al centro l’Io e lo fa prevalere su tutto il resto. Ma, al contrario, un collegamento in presa diretta con il personaggio narrante, un libero flusso narrativo al quale l’estensore Ronconi dà soltanto un ordine e traccia un percorso, affidandosi per il resto alla straordinaria naturalezza del narratore.

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   Così tutto il “Mi ricordo che...”, di felliniana memoria, ci dà la rappresentazione di un personaggio, dei luoghi che ha abitato o visitato, delle persone che ha frequentato, del suo rapporto col piccolo ma significativo mondo all’interno del quale si è svolta la sua vita. Siamo qui esattamente all’opposto del dilagante concetto di “globalizzazione”, che allargando all’infinito l’orizzonte finisce per annullarlo; qui, al contrario, c’è la “localizzazione” di un microcosmo umano e sociale, la costruzione di uno scenario che allo stesso tempo è antico e contemporaneo, ricco di particolari che riguardano il costume, la tradizione, gli affetti, i conflitti, le speranze e le delusioni di cui è sostanziata un’esistenza semplice ma piena di spunti e riflessioni, esperienze e commenti.

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Un bicchiere di vino che si era abituati a versare nella minestra; una perfetta metafora caratteriale come “l’acqua che un posso bere, la inturbidisco”; il maschio gioco della rulla con le pesanti forme di cacio; uno schiaffo volato il 26 Luglio del ‘43; un ufficiale che verso il ‘40 parlava di Mussolini quasi in versi: “Nerone bruciò Roma ma lui, ancor più nero, ha messo a fuoco l’universo intero”; i semi dei bachi da seta venduti a ditali e conservati in petto; questi e mille piccoli altri tratti compongono un ricchissimo e polifonico affresco dove la persistenza della memoria rende presente e vivo un passato disteso sull’arco di poco meno che un secolo. Nitida e fluente come quella di un cantastorie realista, a volte doppiata con cadenze di dialogo da quella della sorella Gabriella che fa da comprimaria, integrata dalle lettere che uno zio scriveva dal fronte della prima guerra mondiale, la voce del “postino di Cetica” ci arriva limpida e chiara facendoci balzare davanti un mondo che credevamo estinto e invece è proprio quello nel quale affondiamo, talvolta senza saperlo, le nostre radici più forti.

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